Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 9 settembre 2012

Da "Spingendo la notte più in là", di Mario Calabresi (Mondadori, 2009)




Non molto tempo dopo la mia nascita il quotidiano "Lotta Continua" ritraeva mio padre con me in braccio intento a insegnarmi a decapitare, con una piccola ghigliottina giocattolo, un bambolotto che rappresentava un anarchico.

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Mamma, al contrario delle settimane precedenti, segnate da pensieri negativi e premonitori, sembrava quasi voler negare che potesse essere davvero successo. Per sopravvivere si attaccò a flebili spiegazioni e improbabili coincidenze, cercando di fare altro.
Finchè suonò il campanello. Andò ad aprire. Era il signor Franco Federico, un sarto amico del nonno, che abitava poco distante. Un uomo che dimostrò grande coraggio, scegliendo, per vera amicizia, uno dei peggiori ruoli che la vita possa assegnare. "Signor Federico, come mai da queste parti?" chiese mia madre, sforzandosi di sorridere, ma lui non riuscì a dire nulla, rimase immobile, con le labbra serrate.

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Per anni ho avuto paura del signor Federico, se mi si avvicinava cominciavo a piangere in modo incontrollabile. ... Aveva ancora i baffi e capelli bianchi, molto folti e candidi, quando lo rividi l'ultima volta. Sono passati più di dieci anni, era in un letto dell'ospedale San Carlo, lo stesso dove portarono mio padre. Stava morendo. Quando entrai nella stanza, mi riconobbe subito, anche se non mi aveva più visto da quado ero ragazzino, e si illuminò. Parlammo abbastanza a lungo, poi gli accarezzai i capelli, erano morbidissimi e lui mi disse: "Mi hai fatto il regalo più bello che potessi desiderare".
Spesso nella vita si elencano le occasioni perdute, io tengo anche la lista delle occasioni non sprecate e quel pomeriggio è sempre ai primi posti.

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Molte volte mi sono chiesto come mi sarei comportato se fossi stato un giornalista allora. E la risposta è netta: mi sarei indignato. La polizia e la questura avevano il dovere di spiegare cos'era successo, senza opacità, senza reticenze, dovevano accertare con severità e chiarezza come era stato possibile che un uomo arrivato in questura sul suo motorino e rimasto sotto interrogatorio per tre giorni fosse caduto da una finestra, morendo poco dopo. Invece ci furono ambiguità, chiusure, quel pezzo di Stato per il quale lavorava mio padre, che faceva capo al Viminale e aveva sede in via Fatebenefratelli a Milano, diede una pessima prova di sè e con le sue reticenze insultò il Paese e avallò i più terribili sospetti.

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Ha raccontato Marco Pannella il 28 gennaio 1998 in un'audizione della Commissione parlamentare sul terrorismo e le stragi: "Fra Milano e Gorgonzola in una bella giornata - credo fosse l'11 agosto del 1967 - ho camminato per almeno 45 minuti avendo alla mia sinistra Calabresi e alla destra Pino Pinelli... Quest'ultimo mi rimproverò perchè, seppure con garbo, dissi al commissario Calabresi che, se si metteva anche lui il cartello "sanwich", avrebbe potuto continuare ad accompagnarmi, altrimenti, nonostante ne fossi felice, non avrebbe potuto. Pino Pinelli protestò, dicendomi che Calabresi era una bravissima persona".

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Ma la verità non trovò spazio nello scontro forsennato di quegli anni. Fiorì invece una serie di leggende nere: il siero della verità, il colpo di karate, l'ambulanza chiamata volutamente in ritardo e il "commissario finestra" che scaraventa il ferroviere agonizzante nel cortile. Vennero tutte smontate, ma nonostante ciò ancora camminano. In parte per ignoranza, in parte per conformismo, in parte per malafede.
Viene dimenticato volutamente il punto fondamentale, assodato al di là di ogni dubbio: Luigi Calabresi non era nella stanza quando Pinelli cadde dalla finestra e morì.

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Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi accomunati da quasi quarant'anni, un tempo più lungo di quello che gli fu dato di vivere. Usati uno contro l'altro, in un braccio di ferro infinito, uno dei tanti che paralizza il Paese e lo tiene costretto con la testa rivolta al passato. Anche per noi sono sempre stati accomunati, da bambini pensavamo che anche Pinelli non era tornato a casa una sera dalle sue bambine e restavamo in silenzio quando qualcuno pronunciava il suo nome. Mamma ce ne parlava con delicatezza, legava i due destini, non li ha mai contrapposti. Un giorno mi ha dato da leggere l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e mentre me l'allungava, ma continuava a tenerla stretta in mano, mi raccontò che era stato Pinelli a regalarla a papà, un Natale. Non so dire se fossero amici, erano su sponde diverse, e ci vuole pudore quando si parla dei morti, ma sicuramente in casa nostra Giuseppe Pinelli non è mai stato un nemico.

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Ho sempre chiesto a mia madre perchè non avesse scelto di metterlo nella terra, come nei cimiteri americani, come ad Arlington, dove i caduti di molte guerre riposano nell'erba. La sua risposta era molto semplice: "Perchè non volevo prendesse la pioggia. Non mi sarei data pace a immaginarlo nella terra le notti di temporale".

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Al doposcuola, finiti i compiti, non andavo in giardino con gli altri ma ottenni di restare in classe. Finivo sempre per primo , mi spostavo in fondo, dove c'era una piccola biblioteca, e restavo a leggere fino all'ora di uscita, all'inizio fumetti, soprattutto "Topolino", poi Robinson Crusoe, il mio libro preferito.
Era una bolla di solitudine in cui mi trovavo a mio agio, ma che aveva evidenti contorni di tristezza. A rompere l'incantesimo in un modo spiritoso ma geniale ci pensò Rosario Carro, detto Iaio, l'ultimo di una serie di fratelli cresciuti all'ippodromo di San Siro dove il padre allenava cavalli. Un pomeriggio si fermò sulla porta della classe e disse: "Commissario Basettoni, ma perchè non ci fai vedere come giochi a pallone?". Mi spiazzò completamente, sapeva del commissario, ma lo aveva trasformato in un personaggio dei fumetti, e il personaggio ero diventato io. Lo seguii a giocare a pallone e lui raccontò a tutti: "Lui è il figlio di un poliziotto, del commissario... del commissario Basettoni, come dicono i miei fratelli. Suo padre è uno che cattura i ladri". Alla fine del pomeriggio lo presi da parte, vicino a un albero che fungeva da palo della porta, e gli dissi: "Lo sai che lo hanno ucciso?". Non volevo cominciare una nuova recita, rischiare nuovi equivoci dolorosi. Lui mi rispose: "Certo che lo so, i miei fratelli me lo hanno raccontato, ma mica dobbiamo dirlo a tutti".

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Ma, dopo quello che era successo, si può comprendere l'atteggiamento dei nonni, tanto che a un certo punto sbottarono: "Insomma, Gemma, chiamiamo le cose con il loro nome: è un pittore capellone e comunista che vive in una comune. Cosa ci trovi? Perchè?". Lei allora tentò una difesa, dicendo che non era comunista e non c'era nessuna comune, poi scattò e disse perentoria: "Perchè ama i miei figli ed è capace di farli ridere. Non c'è altro da discutere".

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Il cortocircuito tra Tonino e i nonni si risolse talmente bene nel tempo che per me è diventato paradigma di come potrebbe essere il nostro Paese, se cadessero steccati e barricate. Si lasciarono contagiare a vicenda, impararono ad apprezzarsi, pur senza cambiare le loro idee di fondo, che con il trascorrere delle stagioni finirono anche per coincidere in alcuni passaggi.

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Essere strappati alle onde è un lavoro faticoso, le difficoltà non sempre si possono aggirare, diluire, trasformare o non vedere. Quando il grumo era troppo grosso o la decisione delicata, ci si sedeva tutti insieme intorno al tavolo tondo della cucina. Lì abbiamo preso tutte le nostre decisioni importanti, lì ci siamo ritrovati anche quando ognuno di noi figli era ormai fuori casa, lì, appiccicato sul manifesto di una mostra di Picasso, Tonino qualche anno fa ci ha fatto trovare una poesia che spiegava ciò che non era mai stato detto:

Padre
un giorno
dopo l'altro,
per amore
eletto,
non per il pane.

Amati
da subito,
misteriosamente
miei.

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"Io tutte queste cose mi sforzo di tenerle ai margini del cuore, di dimenticarle, di non fissarmi sulle scortesie, gli insulti, per poter guardare avanti, per non farmi avvelenare." Mamma parla al telefono, le sto raccontando di quegli scatoloni pieni di carte che voglio buttare, di frasi spiacevoli che ho trovato tra i ritagli di giornale, di quante cose abbiamo dovuto digerire. "Ma come hai fatto?" le chiedo.
"Ho scommesso sulla vita, cos'altro potevo fare a venticinque anni con due bambini piccoli tra le mani e un terzo in arrivo? Mi sono data da fare tutti i giorni, unico antidoto alla depressione, e ho cercato di vaccinarvi dall'accidia, dall'odio, dalla condanna a essere vittime rabbiose. Questo non significa essere arrendevoli o mettere la testa sotto la sabbia. Significa battersi per avere verità e giustizia e continuare a vivere rinnovando ogni giorno la memoria. Fare diversamente significherebbe piegarsi totalmente al gesto dei terroristi, lasciar vincere la loro cultura della morte."

(...)

Per molto tempo ho oscillato tra la lezione di mia madre e una sorda voglia di prendere tutto a calci.

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