Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 23 settembre 2012

Da "In villa", di W. Somerset Maugham (Adelphi, 1999)




La villa era in cima a un colle. Dalla terrazza sul davanti si godeva una splendida veduta di Firenze; dietro c'era un vecchio giardino, con pochi fiori ma con begli alberi, siepi di bosso tosato, vialetti erbosi e una grotta artificiale dove una cascatella d'acqua sgorgava fresca e argentina da una cornucopia. Costruita nel '500 da un nobile fiorentino, la villa era stata venduta dai suoi impoveriti discendenti a certi inglesi, e costoro l'avevano data temporaneamente in prestito a Mary Panton. Le stanze erano ampie e maestose; la casa tuttavia non era molto grande, e Mary la mandava assai bene con i tre domestici lasciatile dai proprietari. Era arredata, parsimoniosamente, con bei mobili antichi, e aveva un tono; e sebbene non ci fosse riscaldamento centrale, sicché quando lei era arrivata alla fine di marzo ci faceva ancora un gran freddo, i Leonard, i proprietari, l'avevano munita di stanze da bagno, e l'abitazione era molto confortevole. Adesso, in giugno, quando stava a casa, Mary passava buona parte della giornata sulla terrazza, da cui vedeva le cupole e le torri di Firenze, oppure nel giardino sul retro.
Nelle prime settimane del suo soggiorno aveva dedicato molto tempo ai monumenti, aveva trascorso mattinate piacevoli agli Uffizi e al Bargello, visitato le chiese e vagabondato a caso per le vecchie vie; ma adesso scendeva di rado a Firenze, salvo per andare a pranzo o a cena con amici. Si contentava di starsene in giardino, a leggere un libro, e se aveva voglia di uscire preferiva salire sulla sua Fiat e girare per la campagna. Niente superava l'incanto di quel paesaggio toscano, con la sua raffinata semplicità; e quando gli alberi da frutto furono in fiore, e i pioppi si ammantarono di foglie, di un color tenero esultante tra il perenne grigioverde degli ulivi, lei si era sentita nell'animo una leggerezza che aveva creduto le fosse per sempre preclusa.


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C'erano tini con piante d'arancio e sarcofaghi marmorei trabboccanti di fiori in gaia profusione. L'antica balaustra di pietra che proteggeva la terrazza era sormontata a intervalli da grandi vasi di pietra, e alle due estremità da statue barocche, alquanto malconce, di santi.

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Aveva, sotto sotto, poca voglia di arrivare; avrebbe preferito assai più cenare da sola in terrazza. Cenare là nelle sere di giugno, quando ancora era giorno, e dopo cena lasciarsi avvolgere a poco a poco dalla dolcezza notturna, era un piacere che le pareva non potesse stancarla mai. Le dava un senso delizioso di pace; ma non una pace vuota vagamente letargica, una pace, piuttosto, attiva e eccitante, in cui il suo cervello era ben desto e i sensi vivi e pronti. Forse era quell'aria toscana, leggera, con qualcosa che agiva su di te in modo che anche la sensazione fisica aveva un che di spirituale. Ti dava la stessa emozione della musica di Mozart, così melodiosa e gaia, col suo sostrato di malinconia, così appagante che ti sentivi come sciolto dal peso della carne. Per qualche istante felice eri mondato da ogni volgarità, e la confusione della vita si dissolveva in una grazia perfetta.

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La principessa gli diede un'altra di quelle sue placide occhiate sorridenti in cui v'era l'indulgenza di chi ha corso un tempo la cavallina e non dimentica né si pente del suo scabroso passato; e insieme la saggezza di una donna che conoscendo il mondo come il palmo della mano è giunta alla conclusione che da nessuno bisogna aspettarsi più di tanto.

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Ma il colonnello non riusciva a capire cosa le donne trovassero in lui. Non poteva sapere, l'onesto e semplice inglese, che Rowley Flint aveva qualcosa, un sex appeal, che spiegava tutto; e il fatto che nei suoi rapporti con le donne fosse infido e privo di scrupoli non faceva che renderlo più irresistibile.

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Con la consueta crudezza, la vecchia principessa aveva confessato:
"È un mariolo, si sa, un vero sciagurato. Ma se avessi trent'anni di meno e mi chiedesse di fuggire con lui non esiterei un attimo, anche sapendo che mi pianterebbe dopo una settimana e che sarei infelice per il resto dei miei giorni".

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"Posso dirti" fece lui con un brillio negli occhi "una delle cose che in te mi piacciono in modo particolare? A differenza delle altre donne, quando ti dicono che sei bella non fai finta di non saperlo. Lo accetti con naturalezza, come se ti dicessero che hai cinque dita per mano".

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 "Allora buona notte. Sposa il tuo pilastro imperiale e buon pro ti faccia".


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Mary passò per le silenziose vie cittadine, tornò sulla strada dell'andata, e poi prese a salire la collina in cima alla quale si trovava la villa. La salita era ripida, con brusche curve a gomito. Più o meno a metà c'era una terrazzetta semicircolare, con un alto e vecchissimo cipresso, e un parapetto da cui si aveva la vista del duomo e delle torri di Firenze. Tentata dalla bella notte, Mary si fermò. Scese dall'auto e andò ad affacciarsi. La veduta che si offrì ai suoi occhi, la valle inondata dalla luna piena sotto l'immensità del cielo senza nubi, era così incantevole che le diede una fitta al cuore.

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Mary cercava ansiosamente la stradetta che saliva tortuosa al paese sul colle. L'aveva percorsa due o tre volte, tentata dalla veduta lontana del borgo, che somigliava a quelli che appaiono nello sfondo di vecchi dipinti fiorentini, in uno di quei quadri con scene del Vangelo ambientate dal pittore nel bel paesaggio natio di Toscana.

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Gli Atkinson erano americani di mezza età, proprietari di una grande villa sontuosa appartenuta un tempo ai Medici, e avevano speso vent'anni a raccogliere i mobili, i quadri e le statue che ne facevano una delle meraviglie di Firenze. Erano ospitali e davano grandi ricevimenti. Quando Mary fu introdotta nel salotto, con i suoi stipi rinascimentali, le Madonne di Desiderio da Settignano e del Sansovino, il Perugino e il Filippino Lippi, gli ospiti erano già quasi tutti presenti. (...) Le alte finestre erano aperte su un giardino all'italiana, con siepi di bosso, fiori in grandi vasi di pietra disposti simmetricamente, e statue barocche segnate dal tempo.

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Nel giardino, fatto a gradoni, c'era un posto a cui Mary era particolarmente affezionata: una piccola striscia erbosa, simile a un campetto di bocce, circondata da cipressi tosati. Su un lato i cipressi erano stati tagliati ad arco, in modo da offrire una veduta, non di Firenze, ma di una collina coperta di ulivi e coronata da un paesetto con vecchi tetti rossi e il campanile di una chiesa.

(...)

"Mary, mia cara, gli uomini sono vanitosi, specialmente i giovani: non lo sapevi? Era un'umiliazione intollerabile. Non mi meraviglio che sia stato sul punto di ucciderti. Lo avevi innalzato alle stelle e poi l'hai ripiombato in un fosso. Era come un prigioniero condotto dai carcerieri fin sulla porta della prigione, e quando sta per uscire, libero, quelli gliela sbattono in faccia. Non era abbastanza, per decidere che non valeva la pena di vivere?".

(...)

"Voglio andarmene da qui, Rowley".
"Non vedo perché non dovresti. Un cambiamento ti farà bene".
"Sei stato molto buono con me. Mi mancherai".
"Oh, ma io credo che in futuro ci vedremo spessissimo".
"E cosa te lo fa credere?".
"Be', a occhio e croce mi pare che non ti resti da far altro che sposarmi".

(...)

"Per me, mia cara, è il matrimonio o niente. Ti voglio in pianta stabile". 

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