Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 26 agosto 2012

Da "L'affaire Moro", di Leonardo Sciascia (Sellerio editore Palermo, 1983)




Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant'anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o di una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri. Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse. Erano ormai un ricordo: dell'infanzia allora attenta alle piccole cose della natura, che di quelle cose sapeva fare giuoco e gioia. Le lucciole le chiamavamo cannileddi di picuraru, così i contadini le chiamavano. Tanto consideravano greve la vita del pecoraio, le notti passate a guardia della mandria, che gli largivano le lucciole come reliquia o memoria di luce nella paurosa oscurità. Paurosa per gli abigeati frequenti. Paurosa perchè bambini erano di solito quelli che si lasciavano a guardia delle pecore. Le candeline del pecoraio, dunque. E ogni tanto ne prendevamo qualcuna, la tenevamo delicatamente chiusa nel pugno per poi aprirne a sorpresa, tra i più piccoli di noi, quella fosforescenza smeraldina.


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Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c'è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità - e quindi spiegazione - nel tutto; e il tutto nelle parti.

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I lettori, almeno quelli - pochi o molti - che sanno capire quel che leggono, non erano del parere dei maggiorenti democristiani: anche se era un parere condiviso dai grandi giornali e dalla radiotelevisione. Che approvassero o no il comportamento dell'onorevole Moro, i lettori non potevano comprendere perché si dovesse giudicare "fuori di sé", non in condizione di intendere e di volere, un uomo che non voleva morire e che si rivolgeva al proprio partito affinché lo riscattasse con mezzi che, per quanto elettoralisticamente rischiosi, non attingevano all'impossibile. C'erano, sì, quei cinque morti: quei cinque uomini della scorta massacrati al momento del "prelevamento". Ma, a pensarci bene, quei cinque morti facevano ragione perché ce ne fosse un sesto?
Comunque, la lettera di Moro non sembrava delirante. E non lo era.

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Così pensava Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, già qualche anno prima: che tra il salvare una vita umana e il tener fede ad astratti princìpi si dovesse forzare il concetto giuridico di stato di necessità fino a farlo diventare principio: il non astratto principio della salvezza dell'individuo contro gli astratti princìpi. E così non potevano non pensare, nel loro essere o dirsi cristiani, gli uomini della Democrazia Cristiana: dalla base ai vertici.
Ma una insospettata e immane fiamma statolatrica sembra essersi attaccata alla Democrazia Cristiana e possederla. Moro, che continua a pensare come pensava, ne è ormai un corpo estraneo: una specie di doloroso calcolo biliare da estrarre - con l'ardore statolatrico come anestetico - da un organismo che, quasi toccato dal miracolo, ha acquistato il movimento e l'uso del "senso dello Stato".

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È come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse alla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent'anni coltiva la corruzione e l'incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi. Da dieci tranquillamente accetta quella che De Gaulle chiamò - al momento di farla finire - "la ricreazione": scuole occupate e devastate, violenza dei giovani tra loro e verso gli insegnanti. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità? Nessuno deve aver dubbio: e tanto meno Moro, nella "prigione del popolo".
"Lo Stato italiano forte coi deboli e debole coi forti" aveva detto Nenni. Chi sono i deboli oggi? Moro, la moglie e i figli di Moro, coloro che pensano lo Stato avrebbe dovuto e dovrebbe essere forte coi forti.

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"Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato".
"Eseguendo": gerundio presente del verbo eseguire. Un presente dilatabile. E si preferisce dilatarlo verso il futuro, verso la speranza. "Tutta la nostra attenzione" dichiara il direttore del giornale democristiano "Il Popolo" "è concentrata sul gerundio". C'è da dubitare che una concentrazione sul gerundio sia mai valsa e possa mai valere a salvare una vita: ma ormai siamo nel surreale. Pieno di speranza, il gerundio sale come un palloncino all'idrogeno: fluttua tra le direzioni dei partiti, le redazioni dei giornali, la radio, la televisione, i discorsi della gente. Non il gerundio presente del verbo eseguire, ma la parola gerundio. Un buon terzo della popolazione italiana si chiede che cosa è questo gerundio cui ci si affida per salvare la vita di Moro. Sarà sinonimo di intermediario? Sarà un ente di autorità morale superiore a quella del papa? Sarà un corpo di polizia speciale, particolarmente addestrato ed attrezzato per azioni di estremo rischio e di estrema precisione? Sarà il nome di una persona che ha un qualche potere sulle Brigate rosse?
La vita e la morte di Aldo Moro - la vita o la morte - perdono di realtà: sono presenti soltanto in un gerundio, sono soltanto un gerundio presente.

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