Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

mercoledì 17 ottobre 2012

Da "I racconti", di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Feltrinelli, 2009)




da RICORDI D'INFANZIA

Lo straordinario interesse che destano i romanzi di De Foe consiste nel fatto che sono quasi dei diari, geniali benché apocrifi. Pensate un po' cosa sarebbero quelli genuini? Immaginate cosa sarebbe il diario di una ruffiana parigina della Régence o i ricordi del cameriere di Byron durante l'epoca veneziana?


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Mai macchie di umidità sui muri esterni di cortile hanno presentato forme più eccitanti di fantasia di quelle di casa mia.
Tutto mi piace in essa: l'asimmetria dei suoi muri, la quantità dei suoi saloni, gli stucchi dei suoi soffitti, il cattivo odore della cucina dei miei nonni, il profumo di violetta nella stanza di toletta di mia Madre, l'afa delle sue scuderie, la buona sensazione di cuoi puliti della selleria, il mistero di certi appartamenti non finiti al secondo piano, l'immenso locale della rimessa nella quale si conservavano le carrozze; tutto un mondo pieno di gentili misteri, di sorprese sempre rinnovate e sempre tenere.

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La casa (e casa voglio chiamarla e non palazzo, nome che è stato deturpato appioppato come è adesso ai falansteri di quindici piani) era rintanata in una delle più recondite strade della vecchia Palermo, in via Lampedusa, al n. 17, numero onusto di cattivi presagi ma che allora serviva soltanto ad aggiungere un saporino sinistro alla gioia che essa sapeva dispensare. (Quando poi, trasformate le scuderie in magazzini, chiedemmo che il numero fosse mutato ed esso diventò 23, si andava verso la fine: il numero 17 le portava fortuna.)

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Non so se sono fin qui riuscito a dare l'idea che ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone.

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Nel centro del cortile, lasciando a destra le scuderie e il maneggio, vi erano due pilastri in pietra gialla porosa, adorni di mascheroni e svolazzi che immettevano alle scalinate che discendevano nel giardino. Erano delle scalinate brevi (una diecina di gradini in tutto) ma nel cui spazio l'architetto barocco aveva trovato modo di dar sfogo a un estro indiavolato, alternando gradini alti e bassi, contorcendo le fughette nei modi più inaspettati, creando pianerottoli superflui con nicchie e panche, in modo da creare su tanta piccola altezza un sistema di possibilità di confluenze e defluenze, brusche ripugnanze e affettuosi incontri ch conferiva alla scalinata l'atmosfera di una lite di innamorati.

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In autunno le passeggiate avevano per meta la vigna di Totò Ferrara, e lì seduti su pietre si mangiava l'uva dolcissima e maculata (uva da vino, perché nel 1905-1910 uva da tavola quasi non se ne coltivava da noi) e poi si entrava in una stanza semibuia nella quale in fondo un gran giovanottone si agitava come un forsennato dentro una botte pigiando coi piedi l'uva il cui succo verdastro si vedeva scorrere in un canaletto di legno, mentre l'aria si riempiva di un pesante odore di mosto.
"Dance, and provençal song, and sunburnt mirth."
No, "mirth" niente; in Sicilia non ve ne era, non ve ne è ancora mai quando si lavora; le stornelleggianti vendemmiatrici toscane, le trebbiature livoniane punteggiate da banchetti, da canti e da accoppiamenti, sono cose sconosciute; ogni lavoro è " 'na camurrìa", una blasfematoria contravvenzione all'eterno riposo concesso dagli Dei ai nostri "lotus-eaters".

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da LA SIRENA

Nel tardo autunno di quell'anno 1938 mi trovavo in piena crisi di misantropia. Risiedevo a Torino e la "tota" n. 1, frugando nelle mie tasche alla ricerca di un qualche biglietto da cinquanta lire, aveva, mentre dormivo, scoperto anche una letterina della "tota" n. 2 che pur attraverso scorrettezze ortografiche non lasciava dubbi circa la natura delle nostre relazioni.

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Alla mia sinistra sedeva sempre un signore di età molto avanzata, infagottato in un cappotto vecchio con colletto di un astrakan spelacchiato. Leggeva senza tregua riviste straniere, fumava sigari toscani e sputava spesso; ogni tanto chiudeva le riviste, sembrava inseguire nelle volute di fumo un qualche suo ricordo. Dopo, ricominciava a leggere ed a sputare. Aveva bruttissime mani, nocchierute, rossastre con le unghie tagliate dritte e non sempre pulite, ma una volta che in una delle sue riviste s'imbattè nella fotografia d'una statua greca arcaica, di quelle con gli occhi lontani dal naso e col sorriso ambiguo, mi sorpresi vedendo che i suoi deformi polpastrelli accarezzavano l'immagine con una delicatezza addirittura regale. Si accorse che lo avevo visto, grugnì di furore e ordinò un secondo espresso.
Le nostre relazioni sarebbero rimaste su quel piano di latente ostilità non fosse stato un fortunato incidente. Io portavo con me dalla redazione cinque o sei quotidiani, fra essi, una volta, il Giornale di Sicilia. Erano gli anni nei quali il Minculpop più infieriva, e tutti i giornali erano identici; quel numero del quotidiano palermitano era più banale che mai e non si distingueva da un giornale di Milano e di Roma se non per la imperfezione tipografica; la mia lettura di esso fu quindi breve e presto abbandonai il foglio sul tavolino. Avevo appena iniziato la contemplazione di un'altra incarnazione del Minculpop quando il mio vicino mi indirizzò la parola: "Mi scusi, signore, Le dispiacerebbe se dessi una scorsa a questo suo Giornale di Sicilia? Sono siciliano e da venti anni non mi capita di vedere un giornale delle mie parti." La voce era quanto mai coltivata, l'accento impeccabile; gli occhi grigi del vecchio mi guardavano con profondo distacco. "Prego, faccia pure. Sa, sono siciliano anch'io, se lo desidera mi è facile portare qui il giornale ogni sera." "Grazie, non credo sia necessario; la mia è una semplice curiosità fisica. Se la Sicilia è ancora come ai tempi miei, immagino che non vi succede mai niente di buono, come da tremila anni."
Leggiucchiò il foglio, lo ripiegò, me lo restituì e s'ingolfò nella lettura di un opuscolo. Quando se ne andò voleva evidentemente svignarsela senza salutare ma io mi alzai e mi presentai; mormorò fra i denti il proprio nome che non compresi; ma non mi tese la mano; sulla soglia del caffè, però, si voltò, alzò il cappello e gridò forte: "Ciao, paesano." Scomparve sotto i portici lasciandomi sbalordito e provocando gemiti di disapprovazione fra le ombre che giocavano.
Compii i riti magici atti a far materializzare un cameriere e gli chiesi mostrando il tavolo vuoto: "Chi era quel signore?" "Chiel," rispose. "Chiel l'è 'l senatour Rosario La Ciura."
Il nome diceva molto anche alla mia lacunosa cultura giornalistica: era quello di uno dei cinque o sei italiani che posseggono una riputazione universale e indiscussa, quello del più illustre ellenista dei nostri tempi.

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Il senatore taceva. Poi: "Sei un buon ragazzo, Corbera; se non fossi tanto ignorante si sarebbe potuto fare qualcosa di te." Si avvicinò, mi baciò in fronte. "Adesso vai a prendere il tuo macinino. Voglio andare a casa."

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"Tutti noi vecchi sembriamo pazzi a voi giovani e invece è spesso il contrario. Per spiegarmi, però, dovrò raccontarti la mia avventura che è inconsueta. Essa si è svolta quando ero 'quel signorino lì' " e m'indicava la sua fotografia. "Bisogna risalire al 1887, tempo che ti sembrerà preistorico ma che per me non lo è."
Si mosse dal proprio posto dietro la scrivania, venne a sedersi sul mio stesso divano. "Scusa, sai, ma dopo dovrò parlare a voce bassa. Le parole importanti non possono essere berciate; l' 'urlo d'amore' o di odio s'incontra soltanto nei melodrammi o fra la gente più incolta, che sono poi la stessa cosa."

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