Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 20 gennaio 2013

Da "Il giorno prima della felicità", di Erri De Luca (Feltrinelli, 2011)




Davanti alla porta da difendere c'era una pozzanghera, per una perdita d'acqua. All'inizio del gioco era limpida, potevo vederci di riflesso la bambina ai vetri, mentre la mia squadra attaccava. Non la incontravo, non sapevo com'era il resto del corpo, sotto la faccia appoggiata alle mani. Nei giorni di sole dal mio finestrino arrivavo a risalire a lei attraverso un rimbalzo di vetri. Restavo a guardarla finché non mi lacrimavano gli occhi per la luce. I vetri chiusi delle finestre del cortile permettevano al riflesso con lei dentro di affacciarsi fino al mio angolo d'ombra. Quanti giri faceva il suo ritratto per raggiungere il mio finestrino. Da poco in un appartamento del palazzo era arrivato un apparecchio televisivo. Sentivo dire che si vedevano persone e animali che si muovevano ma senza i colori. Invece io potevo guardare la bambina con tutto il marrone dei capelli, il verde del vestito, il giallo che ci metteva il sole.

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Mi piaceva la scuola. Il maestro parlava ai bambini. Venivo dallo stanzino dove nessuno parlava con me, e lì c'era uno da stare a sentire. Imparavo tutto quello che diceva. Era una cosa bellissima un uomo che spiegava ai bambini i numeri, gli anni della storia, i posti della geografia. C'era una carta colorata del mondo, uno che non era mai uscito dalla città poteva conoscere l'Africa che era verde, il Polo Sud bianco, l'Australia gialla e gli oceani azzurri. I continenti e le isole erano di genere femminile, i mari e i monti maschili.

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Si scriveva con il pennino e con l'inchiostro che stava in ogni banco dentro un buco. Scrivere era una pittura, si intingeva il pennino, si facevano cadere gocciole finché ne restava una e con quella si riusciva a scrivere una mezza parola. Poi si intingeva di nuovo. Noi della povertà asciugavamo il foglio con il fiato caldo. Sotto il soffio, il blu dell'inchiostro tremava cambiando colore. Gli altri asciugavano con la carta assorbente. Era più bella la nostra mossa che faceva vento sopra il foglio steso. Invece gli altri schiacciavano le parole sotto il cartoncino bianco.

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Avevo nell'infanzia la più speciale libertà. I bambini sono esploratori e vogliono conoscere i segreti.

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In cima alla scala coi piedi a penzoloni, la mia testa imparava a prendere luce dai libri. Quando li finii ne volevo ancora.

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Don Gaetano si accorgeva della mia curiosità per quelle storie capitate al tempo della mia nascita. Giustificava gli abitanti, la guerra tirava fuori il peggio dalle persone, ma uno che vendeva un ebreo alla polizia, che faceva la spia, quello non lo salvava. "È 'na carogna." "Ebrei: e che erano fatti di un'altra sostanza? Non credono a Gesù Cristo e io nemmeno. È gente come noi, nata e cresciuta qua, parla il dialetto. Coi tedeschi invece non tenevamo niente da spartire. Volevano comandare, all'ultimo mettevano la gente al muro, e fucilavano, svaligiavano i negozi. Ma quando è stato il momento che la città si è buttata addosso a loro, correvano come noi, perdevano tutta la guapperia. Ma che gli avevano fatto gli ebrei ai tedeschi? Non si è potuto appurare. La gente nostra manco sapeva che esistevano gli ebrei, un popolo dell'antichità. Ma quando si è trattato di guadagnare qualcosa allora tutti sapevano chi era ebreo. Se mettevano una taglia sui fenici da noi erano capaci di trovarli, pure di seconda mano. Perché ci stavano carogne che facevano la spia."

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Ai lati degli occhi si aprivano le rughe e da lì scolava la malinconia.

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Mi dispiaceva quando finivano le lezioni d'estate. Gli studenti erano contenti, io no. Mi consolavo coi libri di don Raimondo, carta ingiallita che recuperava quando qualcuno si voleva sbarazzare dei libri.
"Una persona ci mette una vita a riempire gli scaffali e un figlio non vede l'ora di vuotarli e buttare via tutto. Che ci mettono sugli scaffali vuoti, i caciocavallo? Basta che me li levate di torno, mi dicono. E là ci sta la vita di una persona, i suoi sfizi, le spese, le rinunce, la soddisfazione di vedere crescere la propria cultura a centimetri come una pianta."

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Hai capito che guerra era, guaglio'? Morivano più i disarmati che i soldati. Per strada cominciavo a sentire i pensieri: ma perché stanno dentro la città e non vanno a combattere? Perché fanno prepotenze contro la povera gente invece di andare al fronte? Cominciavano i pensieri di una testa sola. Le persone quando diventano popolo fanno impressione. Così arriva una mattina, una domenica di fine settembre, finalmente piove e sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero: mo' basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo' basta, mo' basta. Se mi chiudevo le orecchie, lo sentivo più forte. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo' basta, mo' basta, un tamburo chiamava e uscivano i guaglioni con le armi.

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'Andate a riva di mare e buttate una pietra nell'acqua per me.' Pensai che si era indebolito di mente a forza di stare là sotto. Gli risposi che non sapevo se ci passavo per la marina, che la città era in rivolta. 'È un rito nostro, domani per noi è capodanno. Lo festeggiamo a settembre. Con la pietra buttata nell'acqua facciamo la mossa di liberarci delle colpe. Domani per noi comincia l'anno. Voglia il nostro che oggi sia il giorno prima della felicità.'
Non si era indebolito di mente. Prima di passare al comando della rivolta a prendere ordini, scesi a Santa Lucia dove le donne andavano per l'acqua, salii su uno scoglio e buttai a mare una bella pietra pesante. Era capodanno per gli ebrei e doveva essere pure per noi. In quella giornata la città sparò i suoi migliori fuochi, i colpi della libertà. I tedeschi di ritirarono inseguiti e bersagliati da tutti i tetti e gli angoli delle strade.

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"Più di vestiti, e scarpe, i libri portano l'impronta. Gli eredi se ne liberano per esorcismo, per togliersi il fantasma. La scusa è che c'è bisogno di spazio, si soffoca di libri. Ma che ci mettono al posto loro, addosso ai muri col segno dei loro contorni?"
Don Raimondo dice a me quello che non può dire a loro. "Il vuoto in faccia a un muro, lasciato da una libreria venduta, è il più profondo che conosco. Porto via con me i libri mandati in esilio, do loro una seconda vita. Come la seconda mano di pittura che serve a rifinire, la seconda vita di un libro è la migliore."

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In mezzo al golfo c'era all'ancora una portaerei americana, intorno s'inseguivano cento barchette a vela in corsa tra le boe. Con tutto il mare intorno si affollavano in un piccolo spazio. Pure le storie di don Gaetano erano assai e stavano in una persona sola. Lui diceva perché aveva vissuto in basso, e le storie sono acque che vanno in fondo alla discesa. Un uomo è un bacino di raccolta delle storie, più sta in fondo più ne riceve.

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Il destino è una rarità.

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Studiavo come al solito di notte. Mi divertiva il latino, lingua escogitata da qualche enigmista. Tradurlo era cercare la soluzione. Non mi piaceva il caso accusativo, aveva un brutto nome. Bello il dativo, teatrale il vocativo, essenziale l'ablativo. Era pigro l'italiano che rinunciava ai casi. In storia mi annoiavano le tre guerrette d'indipendenza, mi incuriosiva invece la resistenza del Sud, sistemata col nome di brigantaggio. I vincitori hanno bisogno di denigrare i vinti. Il Sud era rimasto affezionato ai suoi sconfitti. Fu un'epopea militare molto più sanguinosa delle scaramucce del Risorgimento con la buffa doppia battaglia di Custoza, perduta due volte a distanza di anni. Cavour mi era antipatico, Mazzini era il fondatore di una banda armata. Garibaldi era arrivato in un momento fortunato, Pisacane in quello sbagliato. La storia era una cucina di ingredienti, si cambiavano dosi e ne usciva tutt'un'altra pietanza.
Non potevo fare lo stesso gioco con la chimica e la fisica. Gli atomi si erano distribuiti il mondo in maniera pacifica, ma c'era stata un'epoca di guerra tra ossigeno e idrogeno prima di raggiungere la concordia attraverso la formula dell'acqua. L'acqua è un trattato di pace. La chimica era lo studio dell'equilibrio raggiunto dalla materia del mondo.

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Lo scrittore dev'essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell'abbondanza che trabocca oltre lo scrittore.

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Succedevano spesso le liti, gli appiccichi, perché eravamo numerosi, uno addosso all'altro. Succedevano per attrito. Si chiamano appiccichi perché hanno un adesivo appiccicoso che invischia le parole e le spinge alle mani, e poi ci vuole un solvente per dividere. Don Gaetano diceva: "Gli asini si appiccicano e il carico si scassa". Per gli appiccichi tra donne usava un diluente magico: offriva una tazza di caffè.
Fecero la pace. Il caffè di don Gaetano aveva poteri giudiziari, era la cassazione. Risolveva le liti.

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L'inquilino del secondo piano, il professore Cotico in pensione, si era dedicato alla poesia. Componeva e poi passava in portineria a recitare i versi appena scritti. La tramontana l'ispirava.
"Friddo 'a matina, che spaccava ll'ogne", freddo al mattino da spaccare le unghie.
"Prufessò', questa già l'hanno scritta e musicata, i versi sono di Ernesto Murolo."
"Possibile? Qua uno è privo di scrivere un verso, che subito esce fuori qualcuno che dice: sono arrivato prima io. Ma signori, la poesia non è un tram che chi arriva primo si siede e gli altri stanno in piedi. La poesia non è una gara di corsa dove bisogna arrivare primi. Ogni giorno nasce vergine di poesia, uno si sveglia e la rinnova."
"Eh già, il primo che si sveglia riscrive la Divina Commedia."
"Don Gaetano, voi siete un giudice troppo severo. Sentite quest'altro verso:
    e pure a mezzogiorno
    'o friddo s'accaniva senza scuorno."
"Questa è vostra, prufesso', questa non ve la leva nessuno, la potete depositare."
"Alla buon'ora."

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A scuola ascoltai a fondo le lezioni. Mi accorsi di com'erano importanti le cose che imparavo. Era bello che un uomo le metteva davanti a un'assemblea di giovani seduti, che avevano uno slancio nell'ascolto, nell'afferrare al volo. Bella un'aula in cui stare per conoscere. Bello l'ossigeno che si legava al sangue e che portava in fondo al corpo il sangue e le parole. Belli i nomi delle lune intorno a Giove, bello il grido di "Mare, mare" dei greci alla fine della ritirata, bello il gesto di Senofonte di scriverlo per non farlo smettere. Bello pure il racconto di Plinio sul Vesuvio esploso. Le loro scritture assorbivano le tragedie, le trasformavano in materia narrativa per trasmetterle e così superarle. Entrava luce in testa come ne entrava in aula. Fuori era un giorno lucente, uno di maggio finito nel mezzo di dicembre.

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