Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 5 maggio 2013

Da "Ragazzi di vita", di Pier Paolo Pasolini (Garzanti, 2010)




dalla Prefazione di Vincenzo Cerami

Dice Pasolini a proposito di Una vita violenta: "La 'mimesis' dialettale contaminata con la prosa letteraria è il più rischioso, massacrante, esasperante lavoro letterario che si possa affrontare".

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 Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s'era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare.

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"Te lo dico", fece il napoletano, "ma tu mi devi promettere una cosa!"
"Che?" fece pronto il Riccetto.
"Di non parlare con nessuno", disse solenne il napoletano, completamente impappolato.
Il Riccetto capì la situazione; si fece più serio ancora, gonfiò il petto, e ci si mise una mano sopra: "Parola mia d'onore", disse.
Il napoletano, come se si sentisse rifare - con gli occhi che gli continuavano a ridere per loro conto, dentro le loro due fessure - cominciò a raccontare la sua storia. Raccontò ch'era stato lui a uccidere una vecchia e due sue figlie zitelle in via Chiaja, con una spranga di ferro, e poi di averle bruciate. Ci mise più d'un quarto d'ora a raccontare questa sbrasata, ripetendo una cosa due o tre volte e facendo tutta una confusione. Il Riccetto non si lasciò impressionare per niente, sgamando subito ch'erano sparate da ubbriaco: ma lo stette ad ascoltare attentamente, dandogli spago e facendo finta di crederci, per poi aver diritto di raccontare lui pure le sue storie. E quante ne aveva da raccontare, che gli erano capitate in quei due anni, dopo l'arrivo degli Americani!
In quei due anni il Riccetto s'era fatto un fijo de na mignotta completo.

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Attraverso quel buco s'infilarono nell'orto.
La luce della luna lo investiva tutto, grande com'era, che non ci si vedevano i recinti dell'altra parte. La luna era ormai alta alta nel cielo, s'era rimpicciolita e pareva non volesse più aver che fare col mondo, tutta assorta nella contemplazione di quello che ci stava al di là. Al mondo, pareva che ormai mostrasse solo il sedere; e, da quel sederino d'argento, pioveva giù una luce grandiosa, che invadeva tutto. Brilluccicava, in fondo all'orto, sulle persiche, i salci, i petti d'angelo, le cerase, i sambuchi, che spuntavano qua e là in ciuffi duri come il ferro battuto, contorti e leggeri nel polverone bianco. Poi scendeva radendo a far sprizzare di luce, o a patinarlo di lucore, il piano dell'orto: con le facciatelle curve di bieta o cappuccina metà in luce e metà in ombra, e gli appezzamenti gialli della lattughella e quelli verde oro dei porri e della riccetta.

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 I ragazzi che erano andati a buttarsi alla draga, arrivavano urlando aggrappati a delle zatterette di canne. "Traversamo fiume", gridò Alduccio da sotto, e si gettò in acqua. Quasi tutti gli andarono dietro, i ragazzini smisero di fare a toppate e vennero sull'orlo della riva. "Tu non te ce butti?" chiesero al Caciotta. "Er coraggio nun me manca", egli disse, "ma è la paura che me frega!"

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Faceva un caldo che non era scirocco e non era arsura, ma era soltanto caldo. Era come una mano di colore data sul venticello, sui muri gialletti della borgata, sui prati, sui carretti, sugli autobus coi grappoli agli sportelli. Una mano di colore ch'era tutta l'allegria e la miseria delle notti d'estate del presente e del passato.

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Il sentiero scendeva giù a mezza costa dell'altura per una ventina di metri, e portava giusto nel centro di Donna Olimpia. Bastava fare un salto, in fondo, oltre un muretto diroccato, attraversare un pezzo di strada, e s'era subito davanti alle scuole Franceschi. Era ancora tutto un mucchio di macerie, come se il crollo ci fosse stato due giorni prima, solo che sulle brecole lavate dalla pioggia e bruciate dal sole s'era depositato un po' d'immondezza. Il Riccetto ci si fermò davanti, con le mani in saccoccia, a dare un'occhiata. Sì, è vero, i massi che erano rotolati in mezzo alla strada e le frane di breccia, erano stati ammucchiati un po' in ordine: solo qualche blocco, qua e là, era rimasto sulla strada: si vede che quando, durante il periodo delle elezioni, avevano fatto finta di cominciare i lavori per ricostruire l'edificio, quei due o tre blocchi erano restati in disparte, e, fatte le elezioni, nessuno s'era più scomodato a venirli a togliere di lì.

(...)

La Ferrobedò, o per dir meglio, la Ferro-Beton, si stendeva alla sua destra nello zucchero filato della luna, un polverone bianco e fragrante, tutta ben ordinata e così silenziosa che di sentiva un guardiano, dentro qualche magazzino, che cantava a mezza voce. E di dietro, s'una specie d'altopiano, controluce, in cima a delle grandi gobbe nere, si profilava immenso il semicerchio di Monteverde Nuovo, punticchiato di lumi, sotto striscioni di nubi che parevano di porcellana, tutti granulosi, nel cielo liscio liscio. Da quand'erano crollate le Scuole il Riccetto non s'era più fatto vedere in quei paraggi: e quasi quasi faceva fatica a riconoscerli. C'era troppa pulizia, troppo ordine, il Riccetto non ci si capacitava più. La Ferrobedò, lì sotto, era uno specchio: con le ciminiere alte, che quasi raggiungevano la strada dal fondo del suo valloncello, con gli spiazzi pieni di file ordinate di traverse accatastate alla perfezione, con i fasci di binari che luccicavano intorno a qualche vagone immobile e nero, con le file dei magazzini che, almeno dall'alto, parevano sale da ballo, tanto erano puliti, coi loro tetti rossicci tutti uguali in fila.
Pure la rete metallica, che seguiva lungo la strada la scarpata cespugliosa sopra la fabbrica, era nuova nuova, senza un buco. Solo la vecchia garitta, lì, presso la rete metallica, era sempre tutta fetida e lercia: quelli che ci passavano avanti, continuavano come una volta a farci i loro bisogni: ce n'era dentro, e anche fuori, tutt'intorno, almeno un palmo. Quello era l'unico punto che il Riccetto ritrovò famigliare, proprio come quand'era ragazzino ch'era appena finita la guerra.

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