Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 10 febbraio 2013

Da "Era ormai domani, quasi", di Enrico Vaime (Aliberti, 2010)




Si sentirono delle urla bestiali, dicevo. Io, come molti, stavo sdraiato sul divano di casa (una volta le case avevano "il divano". "I divani" - due o addirittura più - arrivarono poi. Il divano un tempo era uno. E stava nel soggiorno che alcuni chiamavano "salotto". C'erano a volte anche due poltroncine a completare la scenografia micro-borghese. Noi avevamo anche un puff).

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Dopo un'ora circa la situazione era immutata: la gente aveva deciso di aspettare l'inizio della sagra prima di muoversi verso i giardini comunali del Frontone, in fondo al Corso Cavour (due passi da lì).

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Il primo impatto con l'evento fu di curiosità dunque. È così sempre per tutti in queste situazioni. Non ci fu un'immediata reazione di pietà, come sarebbe stato giusto in fondo, no? Una persona muore, anzi, si ammazza, e tutti lì a chiedere: "Come ha fatto, che ha lasciato scritto, che era successo, debiti, malattie?". Il dispiacere per la morte di un amico, o anche solo di un conoscente, veniva, se veniva, dopo. A curiosità placate, a pettegolezzi superati. Il por Sor Aldo come essere umano ritornò in mente verso le quattro, con la gente sfoltita che cercava di scegliere tra le ipotesi la più facilmente suggestiva: un male incurabile, un disastro economico, una delusione sentimentale. Ipotesi quest'ultima scartata in fretta per motivi di assoluta superficialità.
No, il por Sor Aldo (che da adesso proporremo col nome compattato di Porsoraldo) non poteva, per la in fondo biecamente ottusa platea giudicante, avere storie d'amore, legami passionali, pene sentimentali: era grasso.
Fateci caso: ai grassi non si riconoscono doti o caratteristiche concesse invece ai normo e longilinei.

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Guardai un po' di foto di parenti del Porsoraldo appese in giro: parenti di tutti. Chiunque ne avrebbe potuto riconoscere qualcuno come suo. Questo pensavo quando mi sentii toccare un braccio. Reagii nervosamente forse. Lalla, che mi aveva appena sfiorato, disse "mi scusi". E aggiunse "Dovrei chiederle un favore".
Avrebbe potuto anche chiedermi un organo per un trapianto, con quegli occhi verdi che non avevo mai visto.
"Mi aiuta poi a fare il nodo alla cravatta del Porsoraldo?". Risposi stolidamente "con piacere". Lalla sembrò sorridere. C'era se non altro della benevolenza verso un cretino che provava piacere ad annodare cravatte ai morti.

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Uscito dal Mattiacci (era ormai il tramonto) mi scapicollai verso la macchia di San Domenico, una sorta di enclave boschiva subito sotto la collina dove (oggi non è più così) c'era quanto di selvatico aveva resistito ai non molto numerosi sventramenti cittadini. La macchia concludeva il suo trionfo vegetale davanti alla rete del giardino del manicomio. La recinzione continuava poi fino all'orto dei Felicioni, un terreno coltivato con straordinaria attenzione, ordinatissimo con le sue verdure commestibili tutte uguali e in fila: fave, fagiolini, pomodori.

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Dovevano essere tedeschi, i coltivatori di quella perfezione così poco nostra, almeno dal punto di vista estetico. La signora Felicioni infatti era bionda, solenne, vestita sempre di una specie di mise tirolese completa di parannanza ed era pettinata con meticolosità: una treccia le circondava la capoccia tenendo bene al centro del cranio dei riccioli come in un'aiola di un giardino pensile. Sembrava avesse in testa una torta nuziale. Anche i fratelli della portatrice di quell'ammirevole assemblamento cervicale avevano un'aria nordica.

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La più conosciuta delle ospiti, quella che più spesso si spingeva verso il confine della macchia, era la Saltella. Una donna senza età percorsa da fremiti, nei momenti di difficoltà psichica. Zompettava qua e là e cercava di attirare l'attenzione degli altri esseri umani rivolgendo all'improvviso con la sua voce squillante, una domanda che a me faceva ridere, e imbarazzava anche un po' i meno svegli. La Saltella, arrivata alla rete di recinzione, si fermava di fronte a qualsiasi interlocutore. Lo guardava con una strana espressione che sembrava di stupore. E poi chiedeva a tutti (uomini, donne, vecchi e giovani) la stessa cosa: "vol vede' la passera?" e, senza aspettare risposta, alzava il camicione per esibirsi.
Una volta lo chiese anche a me. Ma arrivarono i sorveglianti e tutto finì prima di quel disvelamento promesso.

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Come mai fino a quel giorno non m'ero accorto di quella presenza ora così sconvolgente? E chi lo sa? (...) Lì a un passo, quello sguardo di paradiso. E io a giocare a palla, alle figurine, a gridare dietro lo sbronzo Fichino chiamandolo con quel nome che lo faceva alterare fino alla cianosi. Poi un segnale. No, non il fattaccio del Porsoraldo, quello era sullo sfondo. Il ricciolo spostato dalla fronte, quello fu il segnale, ecco. Perché guardassi, io sciocco giocatore di figurine, inutile palleggiatore, dileggiatore crudele quanto incosciente di alcolisti, quei due laghi lucenti contornati da ciglia a fronte dei quali il Trasimeno era una cupa pozzanghera.

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È strano come, nel raccontare qualcosa, i tempi si allunghino. O si accorcino. Fanno un po' quello che la memoria suggerisce senza ragioni logiche o plausibili. Un fatto della durata di un minuto può dilatarsi, nel ricordo, fino a coprire un tempo esagerato. Se poi il ricordo diventa scrittura si trasformano in pagine e pagine degli attimi che nel momento in cui li hai vissuti duravano il niente che provoca la loro pertinente definizione.

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Avevo dieci anni quando vidi trascinare per Corso Cavour e poi Borgo XX Giugno, un fascista. Non sapevo chi fosse: intorno qualcuno diceva a bassa voce che era uno che non contava, non era un capoccia. Lo spintonavano spingendolo verso il campo di tiro a segno. E l'uomo procedeva a balzelloni in mezzo a una decina di persone che lo portavano al poligono, tutti sapevamo perché.
Qualcuno guardava con espressione pietosa. Qualcun altro borbottava commenti che esprimevano dubbi su quell'iniziativa che rimase unica nella mia città e colpì uno che non si sa quanto avesse sbagliato, quante colpe avesse accumulato.

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Io questo e poco altro posso riportare. La mia testimonianza di bambino (seppure riflessivo) non è in grado di far luce su quel periodo che, girala come ti pare, segnò la vita di tanti.
Parteciparono ognuno a modo suo, spesso senza capire. Quando il 20 giugno del '44 (voi non eravate nati, magari) arrivarono nella mia città i soldati della VIII^ Armata, assistemmo alla sfilata trionfale. C'erano anche dei ragazzi del posto che avevano combattuto in montagna. Erano i peggio armati, ma i più sorridenti e i più applauditi.
Poi, in Corso Vannucci, sfilarono gli Alleati coi loro mezzi. Decine e decine di carri armati che nessuno di noi aveva mai visto prima, fermi come eravamo a quelle scatole di sardine delle nostre patetiche "truppe corazzate". Macchine da guerra arrivate per noi dal futuro, lucide, efficienti. Tante. Sfilarono per un tempo che ci sembrò interminabile. Uno spettacolo imponente. Man mano che oltrepassavano la piazza della Prefettura, scendevano per l'Alberata. E chi voleva, poteva continuare a seguire quell'interminabile fila di armati e armamenti mai immaginati che arrivava giù in basso fino alla Stazione di Fontivegge.

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La facilità nel perdere la memoria (caratteristica di tutta la nazione, ma non per questo maggiormente accettabile, anzi): da noi il recupero di uno svantaggio (sociale, morale o che) punta sulla cancellazione veloce del passato che può infastidire. Alla distanza tornano vergini anche le zoccole: le rimozioni hanno tempi sempre più brevi, il passato si rimpasta o si cancella con disinvoltura.

2 commenti:

  1. Da questi frammenti, in cui è possibile identificare molti aspetti della nostra vita, mi colpisce la figura della Saltella. Abito a pochi chilometri dal manicomio di Maggiano, scenario dei libri di Mario Tobino, e da noi c'è una specie di familiarità con il dramma della malattia mentale.
    Anche la riflessione su come il tempo trasforma la realtà rispecchia la labilità delle cose umane, delle quali resta ciò che noi vogliamo che resti.
    Mi farebbe piacere che tu visitassi il mio blog "Lo schiaccianoci". a presto:)
    Marilena

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  2. Cara Marilena, ho fatto un breve giro nel tuo blog e ho notato molti titoli interessanti. Dopo averti risposto mi darò alla lettura dei tuoi post! :-)
    Ho comprato questo libro di Vaime per un motivo ben preciso: sapevo che l'ambientazione era la Perugia del secondo dopoguerra. A Perugia ho studiato e ho vissuto lì per dieci anni, fino a poco tempo fa.
    Ma questa storia ha risvegliato in me ricordi e odori ancora più remoti! Non sono mai stata in un reparto psichiatrico o in una struttura simile, ma da piccola ho cantato con il coro parrocchiale nell'ospizio della mia città, Crotone. Gli ospiti di questo posto, purtroppo, pativano tutti di qualche forma di malattia mentale. Che se non c'era prima è subentrata poi, lì, magari a causa del distacco dai propri luoghi e cose. E a me, piccola bimba fortunata, che conosceva ancora nulla della sofferenza e della solitudine dell'uomo, facevano anche un po' paura! La domanda che mi facevo era: perché sono qui e non a casa? Col tempo, tanto tempo, ho dovuto capire che alcune situazioni non sono controllabili dai soli familiari e che non tutti hanno modo, tempo e possibilità economiche per garantire un'assistenza in casa al proprio parente.
    Ho letto un articolo su Maggiano un po' di mesi fa, su Repubblica se non sbaglio. E sono anni che mi riprometto di leggere Tobino ma ancora non l'ho fatto. Grazie del promemoria!
    La riflessione sul tempo che trasforma la realtà, ad essere onestissima, purtroppo, in questi giorni mi fa pensare a Berlu e all'Imu. Per fortuna, è adattabile ad ogni momento della nostra vita, e presto riuscirò a scollegarla da questo pensiero! ;-)
    A presto,
    Daria

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