Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

domenica 24 febbraio 2013

Da "La bellezza e l'inferno - Scritti 2004-2009", di Roberto Saviano (Mondadori, 2009)




da Il pericolo di leggere

Scrivere, in questi anni, mi ha dato la possibilità di esistere. (...) Se qualcuno ha sperato che vivere in una situazione difficilissima potesse indurmi a nascondere le mie parole, ha sbagliato. Non le ho nascoste, non le ho perdute. (...) Scrivere, non fare a meno delle mie parole, ha significato non perdermi. Non darmi per vinto. Non disperare.
(...) Sono gentilissimi, organizzatissimi. Però ti trattano con dei guanti che non sai se sono da cerimonia o da artificieri. E tu non capisci se sei più un pacchetto regalo o un pacco-bomba.
(...) Però puoi scrivere. Devi scrivere. Devi e vuoi continuare.
(...) Bisogno di distruggere tutto ciò che può essere desiderio e voglia: questo è il cinismo. Il cinismo è l'armatura dei disperati che non sanno di esserlo.
(...) Oggi tutte queste idiozie da rancorosi o semplicemente da chi avrebbe tanto voluto avere una qualche visibilità mi fanno quasi ridere, e anzi le conservo in una sorta di stupidario che consiglio di raccogliere a chiunque incorra in un destino simile al mio: emergere, soprattutto al Sud, in un contesto dove il solo diritto di respirare lo devi spesso barattare con la compromissione dell'anima e la castrazione di ogni sogno.
(...) Per me scrivere è sempre il contrario di tutto questo. Uscire. Riuscire a iscrivere una parola nel mondo, passarla a qualcuno come un biglietto con un'informazione clandestina, uno di quelli che devi leggere, mandare a memoria e poi distruggere: appallottolandolo, mischiandolo con la tua saliva, facendolo macerare nel tuo stomaco. Scrivere è resistere, è fare resistenza.
(...) Se ho avuto un sogno, è stato quello di incidere con le mie parole, di dimostrare che la parola letteraria può ancora avere un peso e il potere di cambiare la realtà. Pur con tutto quello che mi è successo, la mia "preghiera", grazie ai miei lettori, è stata esaudita. Ma sono anche divenuto altro da quel che avevo sempre immaginato. Ed è stato doloroso, difficile da accettare, finché non ho capito che nessuno sceglie il suo destino. Però può sempre scegliere la maniera in cui starci dentro.
(...) Ormai non temo più di servirmi di ogni mezzo - tv, web, radio, musica, cinema, teatro -, perché credo che i media, se usati senza cinismo e senza facile furbizia, siano esattamente quel che significa il loro nome. Mezzi che consentono di rompere una coltre di indifferenza, di amplificare quel che spesso già da solo dovrebbe urlare al cielo.
(...) Ecco allora quello che scrive Camus: "Ma l'inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia".
È quello che credo, spero, voglio e desidero anch'io.

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da Lettera alla mia terra

Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. (...) E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Ma questa paranza, nell'inganno delle reti, fa cadere esseri umani, non spigole.
(...) Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e con invece danaro, profitto, cemento che hanno il sapore del saccheggio, non della crescita.
(...) Perché se tutto ciò è triste, la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via.
Chiedo alla mia terra se riesce ancora a immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.

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da Miriam Makeba: la rabbia della fratellanza

"Cosa è il blues?" si chiede lo scrittore afroamericano Ralph Ellison. Il blues è quello che i neri hanno al posto della libertà.

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da Quando la terra trema, il cemento uccide

La resistenza di queste persone è la malta che unisce volontari e cittadini. È quando ti rimane solo la vita e nient'altro che comprendi il privilegio di ogni respiro. Questo è quello che cercano di raccontarmi i sopravvissuti.
Il silenzio dell'Aquila spaventa. La città evacuata a ora di pranzo è immobile. Non capita mai di vedere una città così. Pericolante, piena di polvere. L'Aquila in queste ore è sola. Quasi tutti i primi piani delle case hanno almeno una parte esplosa.
Avevo un'idea del tutto diversa di questo terremoto. Credevo avesse preso soltanto il borgo storico, o le frazioni più antiche. Non è così. Tutto è stato attraversato dalla scossa. Dovevo venire qui. E il motivo me lo ricordano subito: "Te lo sei ricordato che sei aquilano..." mi dicono. L'Aquila fu una delle prime città, anni fa, a darmi la cittadinanza onoraria. E qui se lo ricordano e me lo ricordano come un dovere: presidiare quello che sta accadendo, raccontarlo. Tenere memoria.
Mi fermo davanti alla Casa dello studente. In questo terremoto sono morti giovani e anziani. Quelli che a letto si sono visti crollare il soffitto addosso o sprofondare nel vuoto e quelli che hanno cercato di scappare per le scale, l'ossatura più fragile del corpo d'un palazzo.
(...) Onna non esiste più. Il termine "macerie"è troppo usato. È come se non significasse più nulla.
(...) Franco Arminio, uno dei poeti più importanti di questo Paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato, scrive in una sua poesia: "Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco. Dei vivi ancora meno". Siamo ancora in tempo perché in Abruzzo questo non accada. Non permettere che la speculazione vinca come sempre in passato è davvero l'unico omaggio vero, concreto, ai caduti di questo terremoto, uccisi non dalla terra che trema ma dal cemento.

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da Felicia

Per vent'anni. Per vent'anni, che è un tempo che se si chiudono gli occhi non si riesce neanche lontanamente a delineare. Per vent'anni Felicia ha cercato di lottare affinché la memoria di suo figlio non fosse cancellata e l'assenza di una sentenza di condanna non risucchiasse in un gorgo senza ricordo il senso di quello che suo figlio aveva fatto e tentato di fare. Peppino è stato per anni definito da certa stampa e da certi politici nient'altro che un mezzo terrorista morto mentre stava mettendo una bomba su un binario. La messinscena che i mafiosi di Badalamenti architettarono per non aver problemi proprio nel loro paese riuscì per ventiquattro lunghissimi anni.
La fragile Felicia ogni giorno continuava assieme a suo figlio Giovanni a guardare in volto le persone di Cinisi, i carabinieri, gli uomini di Cosa Nostra. Per vent'anni ha atteso che emergesse un frammento di verità e che Tano Badalamenti, il boss di Cosa Nostra che aveva ucciso suo figlio, fosse finalmente condannato.
(...) All'udienza in tribunale la piccola Felicia puntò il dito contro Badalamenti, lo fissò negli occhi e lo accusò di essere l'assassino di suo figlio, di averlo non solo ucciso ma dilaniato, di essere stato non solo un mafioso ma una belva.
(...) Molti ragazzi oggi si sono radunati fuori casa di Felicia a omaggiare questa signora che sino alla fine ha combattuto con un fuoco perenne contro ogni certezza di sconfitta. Ma Cinisi è assente, niente sindaco, niente presidente della Regione, niente di niente. Meglio così. I sorrisi dei ragazzi venuti da tutte le parti della Sicilia sono assai migliori. I padroni di sempre però sono tornati e continuano a comandare. Ma lei è lì. Il suo corpo è sereno. La verità è emersa, i ragazzi conoscono Peppino, sanno chi è stato, conoscono la strada che lui ha tracciato. La possono seguire. Ora poteva morire tranquilla. Addio Felicia.

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da I fantasmi del Nobel

"Personalmente, non posso vivere senza la mia arte. Ma non l'ho mai posta al di sopra di ogni cosa. Mi è necessaria, al contrario, perché non si distacca da nessuno dei miei simili e mi permette di vivere, come quello che sono, a livello di tutti. Ai miei occhi l'arte non è qualcosa da celebrare in solitudine. Essa è un mezzo per scuotere il numero più grande di uomini offrendo loro un'immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie comuni. Essa obbliga dunque l'artista a non separarsi. Lo sottomette alla verità più umile e a quella più universale. E spesso colui che ha scelto il suo destino d'artista perché si sentiva diverso apprenderà presto che non nutrirà né la sua arte né la sua differenza, se non ammettendo la sua somiglianza con tutti. Nessuno di noi è grande abbastanza per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della propria vita, che sia oscuro o provvisoriamente celebre, legato ai ferri della tirannia o temporaneamente libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustificherà, alla sola condizione che accetti, come può, i due incarichi che fanno la grandezza del suo mestiere: il servizio della verità e quello della libertà."
Mi sembra quasi di poterlo toccare, Albert Camus, che ha pronunciato queste parole nel 1957, tre anni prima di morire in un incidente stradale. E vorrei ringraziarlo, vorrei potergli dire che quel che aveva detto allora, è ancora vero. Che le parole scuotono e uniscono. Che vincono su tutto. Che restano vive.

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