Tutto ciò che delle mie letture mi incuriosisce, mi emoziona, mi fa arrabbiare, mi fa sorridere, mi porta via, mi resta addosso per tanto tempo. Come la forma dell'intreccio della paglia. A gambe nude, d'estate.

lunedì 19 agosto 2013

Da "Cara famiglia", di Guglielmo Zucconi (Fabbri Editori, 2007)




da Presentazione

Momento magico della vita, l'adolescenza, quando tutti i sentimenti sono nuovi, ogni cosa è una scoperta, nulla è stato provato prima.

(...)

Leo entra in casa, dice "ao", secondo la sua maniera di dire "ciao", butta gli occhiali da sole sul divanetto dell'ingresso, gira il bottone del televisore e si accoscia sul pavimento, a godersi un programma dedicato all'agricoltura.
Sua madre esce come un fulmine dalla cucina dove sta tentando di pulire una mezza dozzina di agoni, dono dell'amico che pesca i pesci ma non li mangia.
"Allora?" esclama con visibile ansia.
"Allora che?" chiede Leo senza distogliere gli occhi dal contadino che semina.
La signora Maria fa due passi avanti e viene a piantarsi tra il figlio e il televisore.
Leo si scosta e così facendo va quasi a toccare col viso le forbici sporche di squame, che la madre tiene in mano.
"Quelle forbici puzzano", dice freddamente.
"Senti, brutto stupido," grida sua madre agitandogli le forbici sotto il naso, "io sono qui che muoio per sapere se sei promosso e tu dici che le forbici puzzano! Allora questi voti, questi quadri?"
"I quadri sono alla pinacoteca", risponde Leo cambiando posizione per non perdere la conclusione di un innesto a brindillo.
(...) La signora Maria riguadagna la cucina per non essere costretta, davvero, a mollare un ceffone a quel diciassettenne insolente. Si scontra con la zia Eleonora che accorre, agitata e smarrita come sempre, con la sua aria di sopravvissuta al terremoto: "Allora, è stato promosso? Leo, ti hanno promosso?"
Non ottiene risposta da nessuno, ma interpreta il silenzio per il verso giusto. Leo la sente che dal balconcino di cucina dice alla signora Bolzon, immobilizzata da quindici anni su una sedia a rotelle e da quindici anni sempre sul balconcino di fronte, tranne la notte e i giorni di nevischio: "Non sappiamo ancora niente. Ma ha studiato tanto, poverino, che se lo boccerebbero sarebbe una barbaria!"
"Bocciassero e barbarie", corregge a bassa voce Leo e in quel momento si accorge che della trasmissione sull'agricoltura non gliene importa un fico secco. Ma non ha la forza di muoversi, di incontrare di nuovo sua madre, di farsi leggere la bugia negli occhi. Il televisore invece si lascia guardare senza chiedere spiegazioni.
Lo riscuote la voce di sua madre: "Non stare a sedere lì in terra con i pantaloni nuovi; vai a cambiarti!"
"Ma stasera esco con Massimo!" risponde Leo.
"Lo vedremo, intanto cambiati. Poi se esci o non esci te lo dirà tuo padre!"
(...) Cambiarsi i pantaloni. Che idea piccina, che grettezza. Nei film americani si vedono continuamente figli e mariti che tornano a casa e si buttano sul divano con le scarpe e tutto. Anzi addirittura sul letto. "Povera mamma," pensa Leo, "non ha ancora capito che viviamo ormai in una civiltà di consumi e che si devono sciupare i pantaloni e sporcare i divani. Sennò il progresso si ferma..."
Sente lo scatto della serratura, uno scatto a tempi precisi, prevedibili: trac, uno, due, trac, uno, due, cigolio, porta che si apre, uno, due, tre, puff, porta che si richiude, uno, due e poi: "Maria, sono io!" La voce di suo padre, il ritorno di suo padre, alle 20 in punto, un orologio, come sempre.


(...)

Una giornata torrida. Ora, al tramonto, tutto il palazzo di Via Marconi 18 interno B boccheggia con le finestre spalancate. Zia Eleonora si attarda a ritirare la biancheria stesa, per passare in rivista i coinquilini inquadrati negli stretti palcoscenici delle finestre sul cortile. Bimbi in mutandine, donne in sottoveste e uomini in canottiera; vecchie dalle spalle scavate, vecchi dalle gambette bianche e stecchite fuori dai pantaloncini corti del figlio o del nipote. Tutti spossati, tutti senza dignità.
(...) Leo, dopo un giorno trascorso in una specie di penoso nirvana durante il quale con il filo dei "se" ("Se quel giorno invece di andare al cinema avessi ripassato greco, se quel giorno non mi avesse interrogato in matematica...") si è quasi promosso, ha deciso, fortissimamente deciso, di studiare quattro ore al giorno, a partire da lunedì, anzi no, da domani. Il primo giorno, dopo aver appiccicato al muro il ritratto di Vittorio Alfieri, si è dimenato, per quattro ore filate, sulla seggiola. Il secondo solo tre, ma col proposito di studiarne cinque il successivo. Il terzo giorno, due, poi una. Poi, con la recrudescenza del caldo, è sceso a mezz'ora, segnando però scrupolosamente su un cartoncino il tempo da recuperare. Trascorsa una settimana ha venti ore e 37 minuti di arretrati. Ora, con i libri davanti e con lo sguardo perduto nel vuoto, sta tentando una difficile transazione con l'onore, l'orgoglio e la volontà, per sostituire quelle venti ore assurde con un altro sacrificio anche più duro. Gli pare di averlo trovato infine in venti sigarette: rinuncerà a venti sigarette alla settimana in cambio dell'abbuono di venti ore di studio. Si compiace del baratto, lo approva, e poiché la rinuncia al fumo è tutta salute, decide di insistere sulla strada dell'igiene e si butta a terra a fare un po' di esercizi al tappeto.

(...)

Patty e Leo camminano lungo il viale, come due persone qualsiasi, come due compagni di scuola, per esempio. Che c'è di male per un ragazzo e una ragazza camminare insieme? Ma a Leo pare che tutti i passanti possano leggergli negli occhi il suo amore per Patty. Un amore, a lui sembra, unico e sfolgorante, superiore a tutti quelli che nei secoli passati hanno unito uomini oscuri a donne qualsiasi o personaggi famosi, come Giulietta e Romeo, o anche Dante e Beatrice.

(...)

Vinto il luglio piovoso, agosto sfolgora sul mare.

(...)

"Maria, santo cielo, ma quante volte devo dirti che adesso Leonzio deve studiare?"
"Anche tu dovevi studiare quando ti sei fidanzato con me."
"E tu picchia! Ma che c'entra il paragone con noi? Lo vuoi capire che noi eravamo diversi?!"
"No, ti sbagli, noi eravamo uguali; l'unica differenza è che Leo è nostro figlio."

(...)

Ma i giorni passano, il mercoledì fissato per la festina si avvicina e Leo continua a rimanere muto. Finché una sera, il padre, rinunciando al vantaggio del contropiede, attacca per primo: "Ma insomma, questa festina da ballo vuoi farla sì o no?"
"Ma non si era già detto di sì?" risponde Leo con candore.
"Chi aveva detto di sì?" incalza il padre con un'occhiata alla moglie.
"Il solo fatto che tu non abbia detto di no vuol dire sì..."
"Ma, permetti, come faccio a dirti sì o no su un argomento che ignoro?"
"Se lo ignori, come fai a parlarmene per primo?"
La logica è sempre la logica, sia in tribunale sia attorno a un desco e ovunque un uomo sia messo con le spalle al muro dalla logica, si arrende o reagisce al di fuori della logica. Il signor Roberto se la prende con il tovagliolo e lo sbatte violentemente sulla tavola, poi, vedendo zia Eleonora che sta portando la frittata con cipolle, grida: "Sei stata tu, negalo!"
"Oh Madonnina santa, sono stata io a far cosa, che cosa sono stata io?" domanda la zia con uno scossone che fa spuntare dal piatto una frangia di frittata.
" A dire a Leo che io non ero contrario alla festina!"
"Io? Ma se io non sapevo neanche niente che quando tu e Maria ne avete parlato nel bagno io ero in cucina col rubinetto aperto che lo può dire la Maria che quando c'è il rubinetto aperto in cucina se uno parla nel bagno non si sente una parola!"

(...)

Mentre in casa Remondino avviene il penoso colloquio, in casa Maggi, dall'altro lato del cortile, zia Eleonora, dopo essere stata a lungo di vedetta al balconcino, non resistendo più allo spasimo di un'attesa che sembrava interminabile, si è ritirata nella sua stanza a pregare. Non è ben sicura che sia una buona cosa pregare per simili storie e si ripromette poi di confessare questo suo peccato a don Arialdo. Ma è veramente peccato? Amare un nipote, intenerirsi su quel viso contraffatto che porta in giro per le stanze in una irrequietezza mascherata da disinvoltura, pregare per la sua felicità è una colpa?

(...)

Patty, scortata dal "Terrore dei mari del sud" si infila nello studio paterno. Il dottore richiude l'uscio e attende con ansia. Il presentimento di qualche grosso guaio toccato alla figlia, malore, malanno, malattia, lento deperimento, prognosi infausta, gli fa rimandare il momento delle spiegazioni. In silenzio va a lavarsi e ad asciugarsi le mani. Di sottecchi guarda la figlia che continua a tacere, poi con gli occhi e con un cenno del capo interroga Michelino. Il bidello allarga le braccia e abbassa il volto contrito con l'aria di chi vuol dire: "Abbiamo fatto tutto il possibile: ma purtroppo..."
"Ma insomma, si può sapere che è successo? Stai male?" chiede infine alla figlia.
"No," risponde Patty, "mi hanno sospesa..."
"Proprio così, dottore", sospira il "Terrore dei mari del sud" tendendo al medico la busta gialla con le "comunicazioni alla famiglia".
"Ma cosa vuoi che sia!" sta per esclamare il dottor Remondino sentendosi sollevato dallo spettro di una misteriosa malattia, ma vede l'integerrimo volto del bidello atteggiato in una giusta espressione di condanna e dice: "Capisco. Brava! Bella roba... Eh, queste ragazze...! Adesso facciamo i conti io e te... Lei è stato molto gentile ad accompagnare fin qui la bambina... Ora ci penso io, grazie..."
"Dottore, io ho sempre una fitta qui dietro l'orecchio, c'è rimedio?" chiede il bidello avviandosi verso la porta.
"Venga quando vuole, si metta d'accordo con l'infermiera... Venusta! Fissa un appuntamento qui al signore... sono a sua completa disposizione, grazie, grazie mille, veramente obbligato. Eh, si sa, le ragazze oggi... Mah, speriamo bene. No, ecco, non dicevo per lei, lei non si preoccupi, vedrà che non è nulla... tanti, tanti ossequi, a presto..."
Poi il dottor Remondino richiude l'uscio dietro le spalle del bidello e si volta appena in tempo per accogliere tra le sue braccia la figlia.
"Papà, voglio morire!" singhiozza Patty.

(...)

I pesciolini hanno abboccato, continueranno ad abboccare, attratti da tutti quegli avanzi di solaio allineati sugli scaffali: vecchi tromboni inservibili e ferri da stiro a fornello, cavalli a dondolo di cartapesta, carabinieri di pezza, scaldini e cuscini poggiapiedi ricamati a piccolo punto, macinini, biglie di vetro con l'anima a tortoglione colorata, pistole arruginite, chepì, dischi d'opera 78 giri, pomidori e cipolle di rafia, cuccume di ferro smaltato, girarrosti e arcolai. Perché, perché questi capelloni dall'aria macilenta, queste ragazzette vestite coi colori delle insegne al neon, delle bibite e dei giubbotti dei cantonieri delle autostrade, perché si buttano con tanta ingenua bramosia su tutti quei polverosi relitti? Odoacre non vuole rispondere, né gli importa. Ma i sapientoni che partecipano ai dibattiti televisivi hanno trovato la risposta: nella gioventù d'oggi, all'apparenza così sicura, così spregiudicata, esiste un confuso bisogno di sicurezza, di focolari, di tradizioni, di favole. Il mondo moderno gli ha dato solo benessere, velocità e scandali. E loro si rituffano nel passato, in quel po' che trovano del passato: le vecchie cianfrusaglie sono, per loro i detriti morenici del passato che è passato.

(...)

Era infatti l'ora in cui la gente va di fretta con la testa piena di pensieri, l'ora in cui chi passerà la sera in casa, ha furia di arrivarci, per lasciarsi dietro le spalle le preoccupazioni di una giornata ormai trascorsa e chi invece ha in programma di uscire, è ansioso di togliersi l'impiccio della cena per tuffarsi nella serata di vita. Un'ora di transizione, un ponte tra due momenti veri della giornata. Tranne che per gli innamorati che quell'ora hanno attesa e preparata tutto il giorno e magari tutta la settimana e perciò se la vivono e se la gustano e la prolungano, camminando lenti e molleggiati, fermandosi a ridere per un nonnulla, ogni tre passi, possibilmente dove una chioma di un albero fa schermo al lampione, sbocconcellando il colloquio d'amore in mille parole, che sarebbe troppo rapido e quindi sleale riassumere, perché il sugo è sempre quello: "Io ti amo, anch'io".

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